
Con l’ordinanza n. 605 del 10 gennaio 2025, la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si è pronunciata in ordine al diritto del lavoratore che sia invalido civile allo svolgimento della propria attività lavorativa per mezzo dello smart working quale misura di accomodamento prevista dalla normativa antidiscriminatoria dei lavoratori con disabilità.
Il caso
La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Nola, ordinava alla società datrice di lavoro di assegnare il dipendente alla sede lavorativa più vicina alla residenza dello stesso perché questi potesse svolgere, da remoto o comunque in regime di lavoro agile e dalla propria abitazione, le medesime mansioni svolte presso l’originaria sede di assegnazione.
In particolare, la Corte osservava che:
- nella sede di destinazione erano effettivamente adibiti solo tecnici;
- le condizioni di salute del lavoratore rendevano difficoltoso l’accesso alla precedente sede di lavoro;
- la possibilità di lavoro agile era prevista in azienda da apposito accordo, sebbene fossero esclusi i caring agents come il lavoratore specifico;
- nondimeno, in base all’obbligo di adottare ragionevoli accomodamenti per evitare disparità di trattamento del lavoratore con disabilità, andava verificata in concreto la possibilità di espletare la prestazione con modalità di lavoro agile, con oneri finanziari per la società, quali la fornitura di idonea strumentazione e la formazione, non eccessivi e dunque non irragionevoli;
- in esito alla verifica, lo smart working, già utilizzato in periodo pandemico, poteva essere utilizzato quale ragionevole accomodamento e compromesso tra le esigenze del lavoratore e dell’azienda.
Avverso tale decisione, proponeva ricorso per Cassazione la società, sulla scorta du due motivi.
L’ordinanza n. 605 del 10 gennaio 2024
Con il primo motivo di ricorso, la società sosteneva l’insussistenza e la mancata dimostrazione di discriminazione in ragione della mancata adozione di ragionevoli accomodamenti da parte della società in relazione alla disabilità del dipendente.
Con il secondo motivo di ricorso, invece, sosteneva che erroneamente la Corte d’Appello avesse assegnato il lavoratore alla sede più vicina alla sua abitazione senza consentire alla datrice di lavoro di concordare con il lavoratore l’accesso al lavoro agile e le relative modalità né di esercitare il diritto di recesso dal lavoro agile, imponendo sine die l’adibizione allo smart working in assenza di accordo tra le parti, mentre le norme in materia prevedono il contrario.
La Suprema Corte di Cassazione, esaminato il ricorso, dichiarava entrambi i motivi infondati.
In ordine al primo motivo, gli Ermellini, dopo avere precisato che la normativa contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda, tra l’altro, sulla Carta dei Diritti dellUnione Europea, nonchè sulla Convenzione ONU, hanno chiarito che la necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittime finalità di politica occupazionale, postula l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili.
Nel prosieguo, la Corte ha altresì ricordato che nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’art. 4 del D.Lgs. 216 del 2003, che stabiliscono un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente per effetto della quale incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa.
Sulla scorta di tutto quanto precisato, il Supremo Consesso ha ritenuto che la Corte avesse proceduto in linea con detto regime probatorio e che, pertanto, il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, fosse stato individuato nella soluzione dello smart working dall’abitazione, già utilizzata nel periodo pandemico.
In ordine al secondo motivo di ricorso, invece, la Suprema Corte ha specificato che sebbene gli accomodamenti ragionevoli ben possano realizzarsi in sede negoziale, è altrettanto vero che in assenza di tale accordo, la soluzione del caso concreto spetta al giudice di merito.
La massima
“la necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittime finalità di politica occupazionale, postula l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della Direttiva 2000/78/Ce, ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie Ue: ne consegue che è stato individuato nella soluzione dello smart working dall’abitazione, già utilizzata bel periodo pandemico, il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, risulta idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore di lavoro a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa ”.
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